Lo stigma

LO STIGMA E L’ODIO DI SE’[1]

ALBERTO EIGUER

« L’io può trovarsi profondamente modificato dall’identificazione, diventando residuo intrasoggettivo di una relazione intersoggettiva. » J. Laplanche e J-B Pontalis, 1967, p. 249.

La nozione di stigma evoca numerosi problemi legati al sociale e allo psichico. Uno stigma è un difetto, « un segno che lascia una piaga, una malattia… », di natura fisica o psichica, di origine ereditaria (colore della pelle o malattia, l’emofilia, per esempio),  dovuto ad un trauma, a un incidente, o provocato da una ferita che il soggetto si infligge, come nella scarificazione. Lo stigma può essere vissuto come un handicap dal punto di vista soggettivo, ma handicap e stigma non sono identici (cf. E. Goffman, 1963;  J-Y 2010, Giordana).

La nozione di stigmatizzazione deriva dal termine stigma; significa rigetto ed emarginazione; questo scatena sofferenza, colpevolezza o/e vergogna in chi lo porta, pietà o disprezzo in colui che vi  sta di fronte.  Incrocerò la sua problematica con quella dell’odio di sé, che ne è una delle conseguenze ma anche un fattore aggravante. In effetti, lo stigma sebbene sia reale non è doloroso se non nella misura in cui il soggetto lo considera come stigmatizzante (E. Goffman, op. cit.). Il soggetto può tentare di nasconderlo ma sa che  è là. Potrebbe dissimularlo ma qualcuno potrebbe comunque scorgerlo. Lo stigmatizzato potrebbe eccedere nella dissimulazione: una compensazione che sarà percepita come artificiale. (Cf. anche L. Lacaze, 2012).

Sarà possibile al soggetto capovolgere la situazione e fare dello stigma il punto di partenza di un adattamento riuscito, servendosene per selezionare scelte propizie di vita.

Questa evoluzione evoca altre forme di stigma. Nella sua definizione si parla di segno; una cicatrice sulla pelle ne è una forma. Diversamente diventa un segno di appartenenza ad un gruppo. E’ il caso delle cicatrici simboliche provocate sulla pelle come le scarificazioni rituali e i tatuaggi a cui sono affezionati numerosi giovani o persone appartenenti a certi gruppi come i marines. Altre persone danno un nuovo significato alla loro cicatrice, per mostrare ad esempio, di voler condividere la sofferenza di Cristo. Nei tatuaggi o nelle pitture sul corpo di alcune culture, si tratta ugualmente di stampare la propria appartenenza al gruppo, le prodezze guerrire o il nome o il ritratto di persone alle quali si è sentimentalmente legati. In questo caso, il segno è senza dubbio parte integrante dell’identità. Ma conveniamo che lo stigma sia generalmente vissuto come un difetto. Lo sguardo negativo degli altri è un fattore il cui ruolo è innegabile. Il soggetto detesta in se stesso ciò che è considerato come un elemento di disprezzo. La discriminazione e la segregazione ne sono le conseguenze. Alcune carriere vengono distrutte, le prospettive di futuro si fermano, il soggetto si vede ridotto a delle opzioni che non corrispondono né alle sue capacità né alle sue aspirazioni, né a quelle della sua famiglia.

Il soggetto si identifica per mimetismo a ciò che lo rifiuta, attaccando il suo sè e il suo legame con gli altri. L’amore per sé, la fiducia in sé stesso, il suo narcisismo crollano. Lo stigmatizzato crede immancabilmente di essere disprezzato. Il dedicarsi degli altri a lui sarà interpretato come « carità »; la loro preoccupazione sarà interpretata come mancanza di « autentica empatia ».

Perchè lo sguardo altrui diventa così vitale al punto che l’identità della persona ne è talmente tributaria? Perchè il Super-Io è « sloggiato » e sostituito da un giudizio estraneo?

E perchè il soggetto non riesce a sviluppare uno sguardo interno autonomo, a privilegiare il proprio sguardo su quello altrui? Se questo sgaurdo estraneo favorisce delle simili distorsioni, non bisogna forse  interrogarsi sul ruolo dello sguardo di ciascun genitore nella visione che il soggetto ha di se stesso? I legami primari e l’intersoggettività,  e allo stesso modo la trans-soggettività, sarebbero  molto verosimilmente chiamate in questione.

COMPENSARE IL PROPRIO STIGMA O CAPOVOLGERLO?

La connotazione negativa che il soggetto attribuisce allo stigma è dunque fonte di odio di sé ma, per liberarsene, Michel Wieviorka (2001) propone che lo stigmatizzato si inscriva in un percorso in cui la sua differenza  possa essere connotata positivamente, egli possa così viversi  « come un essere capace di apportare qualcosa di costruttivo, di positivo, di culturalmente valorizzato o valorizzabile » (p. 123).

Questo capovolgimento positivo permetterebbe di uscire da una logica di esclusione per essere, al contrario, totalmente assimilato dal punto di vista sociale. Lo stigmatizzato potrebbe tentare di battersi alla sua maniera per spiegare che la sua differenza non dovrebbe essere oggetto di disprezzo, ma è una lotta a lungo termine e sicuramente rischiosa, contrassegnata da dubbi e dalla paura di non arrivare a nulla, il che si aggiunge alla « colpa » di non essere come tutti.

E’ trovando che la sua realtà è degna di essere connotata in  modo costruttivo che il soggetto stigmatizzato si risolleverà, come nel caso degli Afro-antillani e degli Africani (Aimé Césaire, 1938) che hanno scoperto una cultura africana densa di storia e ricca di valori: la solidarietà famigliare, il rispetto degli antenati, il ruolo singolare del corpo nella sua ricchezza espressiva. Il sentimento di appartenenza al proprio gruppo sociale favorisce nel soggetto delle attitudini come, in questo caso, la sensibilità musicale, la percezione dei ritmi (danza), e la creatività artistica ereditate e sviluppate dal gruppo comunitario. Lo stigma può quindi diventare un  motore; esso aiuta ad avvicinarsi ai propri simili, a unire il gruppo e ad animare una lotta sociale in vista di trasformare la stigmatizzazione in integrazione. Wievorka (op. cit.) ricorda che questo capovolgimento dello stigma rinvia ad un lavoro su di sé e al confronto con la società, per difendere la propria differenza e spiegare i vantaggi del multiculturalismo, in un arricchimento della società stessa (p. 126).

Qui l’orgoglio è ritrovato se non addirittura « sfoggiato ». Lo stigma si arricchisce tutto sommato di « nuovi significati » (cf. A. Eiguer, 1999).

Ma il lavoro su di sé come avviene?

Mi sembra importante sottolineare il ruolo della famiglia sia nello sviluppo negativo del vissuto stigmatizzante che nella sua evoluzione positiva. La famiglia è importante nella trasmissione della vergogna, essa è ferita nel suo  insieme, in maniera particolare se trasmette questi attributi stigmatizzanti attraverso i geni e/o attraverso la appartenenza identitaria  (gitani, ebrei, armeni, ecc.).

Tuttavia, Wierviorka ci avvisa che il processo di capovolgimento positivo può fallire, la società può rigettare di nuovo lo stigmatizzato, e quest’ultimo può cadere nell’annientamento della sua differenza, della sua identità, cioè della sua persona. Può anche essere tentato di perseverare nella difesa della sua identità singolare, fomentando l’odio verso gli altri, virando verso l’opposizione sociale.

Queste considerazioni sono avanzate a partire da una prospettiva psicosociale. Esse rendono le cose più chiare da più punti di vista, ci aiutano a pensare meglio il funzionamento psichico degli stigmatizzati e delle loro famiglie. Cercherò di sviluppare questi pensieri nei punti che seguono.

DALL’ODIO DI SE’ ALL’ODIO DELLA PROPRIA EREDITA’

Per completare il lavoro su di sé al quale Michel Wiervorka ci invita, chiediamoci quale ruolo possa giocare l’analisi dell’odio di sé. Desidero citare qualche esempio in cui si materializzano l’odio di sé nel portatore di stigma e le difese che questo erige per nascondere o annullare questa differenza. Eccone  alcune espressioni possibili:

– Lo sbiancamento della pelle nella persona di origine asiatica, afro-antillana, africana o araba. La lisciatura dei capelli negli ultimi tre. Cf. anche i differenti cambiamenti di aspetto ricorrendo alla chirurgia estetica e riparatrice.

– La conversione ad un’altra religione più diffusa nel contesto sociale.

– L’adozione argomenti razzisti contro la propria singolarità.

– La riduzione della propria differenza ad un solo tratto a scapito degli altri, come ad es. limitare la propria cultura  ad una religione quando in realtà la cultura è più complessa. Cf. gli ebrei europei che dimenticano che l’identità ebraica implica altre dimensioni che non i soli aspetti religiosi. E nello stesso tempo, si « esclude » dal campo dell’ebraismo gli ebrei atei e laici.

– L’adozione di un Falso-Sè.

– La generalizzazione di questi funzionamenti ai membri del gruppo famigliare o a una parte di essi.

– Un adolescente che si scarifica  può detestare in sé un tratto postivo della sua persona che egli immagina possa piacere agli altri. Egli tende in questo modo a punire il suo potere seduttivo « naturale » o tende a voler privare gli altri del piacere che egli provoca. Si tratta di un attacco al legame intersoggettivo.

– Un gran numero di genitori portatori di malattie genetiche e/o colpiti essi stessi da queste malattie e i loro figli handicappati difficilmente accettano consapevolmente il loro essere differenti. L’odio di sé raddoppia e diventa anche « odio della propria eredità ».

– Questo si ritrova in molte altre famiglie che vivono negativamente il fatto di avere avuto un antenato emarginato, delinquente, truffatore, assassino. Si entra a questo punto in ciò che viene definito come oggetto transgenerazionale handicappante: la macchia vergognosa della stirpe. Una macchia vissuta come uno stigma di famiglia? Sarebbe comunque interessante sapere se un difetto fisico non sia vissuto come  tanto più stigmatizzante dal momento che la famiglia si vive come portatrice di una macchia vergognosa.

IL LAVORO SUL SE’ E I FONDAMENTI DELL’IDENTITA’

La relazione dello stigmatizzato con il sociale è indiscutibile ma il lavoro su di sè la precede.

L’odio di sé pre-esiste a qualsiasi presa di coscienza dello stigma. Blaise Pascal (1669) collega l’odio di sé al fatto che il soggetto si vive come un pescatore che si abbandona alla sua naturale voluttà, ma questa non è necessariamente distruttrice: lo può aiutare invece a conoscersi meglio.

Nel suo articolo  « Pascal: l‘io », M. Le Guern studia l’origine dell’io sottolineandone il versante pascaliano. Descartes (1637) attraverso il suo cogito ergo sum considera che la questione dell’io sia legata strettamente alla ragione. Dal canto suo, Pascal collega la questione alla possibilità di amare e di odiare, o più precisamente al fatto che l’io possa essere amato o odiato. Per Pascal, l’io non è una astrazione, le sue qualità acquisiscono un senso nella misura in cui esse sono l’oggetto dei sentimenti provenienti dagli altri. Un’altra testimonianza del suo punto di vista in relazione alla vita emozionale è l’adagio che si torva nei Pensées: « Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce ».  Se l’intelletto ha una parte luminosa, la ragione, il cuore, ne possiede una oscura e misteriosa: l’intuizione. Questa è sensibile alle emozioni, alle impresssioni interne. Non si trova la verità fintanto che non si è in pace con se stessi. E il cuore ha una parte  collegata al mondo.

Prima di affrontare l’odio di sé in Pascal è allettante precisare in cosa il sè in psicoanalisi si differenzia dall’io di Pascal e in cosa gli assomiglia, o piuttosto ciò che del sè psicoanalitico contemporaneo è già presente nell’io di Pascal. Nell’opera di Freud, l’io evolve fino alla sua formulazione più compiuta, quella del 1920, ma questa evoluzione continua ancora. La sua concettualizzazione segue due linee (Laplanche e Pontalis, 1967): la prima sottolinea i conflitti dell’io alle prese con la realtà, con l‘Es e il Super-Io che sono indipendenti l’uno dall’altro ma che comunicano tra loro. La seconda linea insiste sulla opposizione tra l’Io e gli oggetti.

Nella prima linea, l’io subisce le costrizioni delle istanze e della realtà; ne consegue un conflitto con queste (l’io « … è sottomesso a una triplice schiavitù … » (Freud, 1923). Quando si tratta di moderare le rivendicazioni dell’Es,  l’io si fa porta-parola del principio di realtà (Freud, op. cit.). In tutti casi, l’io si sviluppa soltanto guadagnando terreno sull‘Es. Dopo Freud, si sono approfonditi i legami tra l’io e l‘altro, soprattutto, si è arrivati ad una nuova istanza: il sé; essa si arricchisce di ciò che il mondo rimanda all‘io. In altre parole, „mi trovo in uno stato di dipendenza in relazione al modo in cui il mondo mi guarda e mi giudica; mi sento degno di valore innanzi tutto grazie al riconoscimento degli altri, e poi di me stesso, quando il riflesso esterno diviene riflesso interno e quando questo si sviluppa nella misura in cui io mi vedo come un altro che mi guarda ». L‘io tratta con le percezioni, quella che abbiamo appena evocato  ne è una.

Il punto di incontro con l‘io pascaliano si situerebbe qui: l‘io è sottoposto allo sguardo degli altri. Queste sono preoccupazioni comuni al filosofo e agli psicoanalisti.  Di fronte all’enigma della formazione dell‘io, Laplanche e Pontalis (op. cit. p.253) concludono, per esempio: « L‘io non è un apparato che si svilupperebbe a partire dal sistema Percezione-Coscienza ma una formazione interna che trova la sua origine in alcune percezioni privilegiate, che non provengono dal mondo esterno in generale ma dal mondo interumano. » Non trovo più chiara allusione all’intersoggettività dei legami primari.

La definizione analitica si differenzierà, naturalmente, da quella di Pascal nella misura in cui questo ignora l’inconscio e l’apparato psichico. Pascal ignora la funzione delle pulsioni e anche quelle del narcisimo, della sessualità infantile e della identificazione. Quest’ultimo concetto gli sarebbe stato utile: l’identificazione permette lo sviluppo dell‘io grazie all’integrazione di nuove caratteristiche.

Ma l‘io di Pascal sarebbe vicino all‘Io e al sè contemporaneo. Si possono associare le sue riflessioni con quelle di autori moderni che si preoccupano di determinare i fattori stimolanti o inibenti la stima di sé. E l’odio verso l‘io non sarebbe forse il maggior problema del depresso, indebolito nel suo Sè, nel suo io, nel suo narcisismo? Non si è introdotta la nozione di « critica sociale » per raccomandare al depresso di evitare il contatto con le persone che lo censurano (C. André, 2008)?  Pascal apporta degli elementi originali attreverso il modo in cui elabora il legame del soggetto  con lo sguardo altrui   e lo integra al suo io.

« L‘io è odiabile » è la formula avanzata da Pascal. « L‘io è odiabile » ma da chi? si domanda Le Guern (op. cit. p. 179). « L’interpretazione che ricorre più velocemente, quando si prende questo enunciato staccato dal suo contesto, è che ciascuno dovrebbe odiare se stesso. Ma, considerando il concetto pascaliano dell‘io, questa interpretazione è irricevibile. Colui che odia è necessariamente il soggetto; o, per Pascal, il soggetto è l’altro. Le parole messe in bocca all’interlocutore di Mitton (personaggio immaginario con cui Pascal dialoga), « non c’è soggetto da odiare più di noi stessi » significano che gli altri non hanno più ragione di odiarci. Ma la trasformazione predicata dall’onestà mondana non va oltre le apparenze. « L’io è odiabile » significa semplicemente che gli altri hanno il diritto di odiarmi perchè io sono,  in quanto erede del peccato originale,  un essere  di desiderio. Ciò che Mitton copre, ciò che si sforza di nascondere, ma senza liberarsene veramente, è la triplice libido, libido sentiendi, libido sciendi, libido dominendi. Sono i tre desideri che rendono l‘io degno di essere odiato. »  (Libido sciendi, desiderio di sapere; libido sentiendi, desiderio sensuale; libido dominendi, desiderio di potenza).

Per Pascal, l‘io non è totalmente corrotto dalla « colpa »: ogni essere umano è in condizione di ritrovare ciò che egli è stato prima della caduta, un essere naturale. Ciò significa che l’uomo può fare ammenda, ritrovare la virtù e in questo modo essere degno di farsi amare.

La soluzione per Pascal è religiosa, ma noi possiamo estendere questa prospettiva al lavoro del soggetto per la conquista della verità su di sé coerentemente con le sue tendenze contraddittorie, pulsione e censura, desiderio e realtà, Es e Super-Io.  E‘ così che si procede meglio nella conoscenza della propria intimità considerando i propri difetti piuttosto che essere fieri delle proprie pretese « virtù ». L’autocritica è un motore formidabile; l’autoconoscenza, una potenzialità di cambiamento. In questo, l’autocritica può favorire il narcisismo trofico, al servizio della crescita. Alcuni individui utilizzano l’autocritica per farsi valere. Altri per migliorarsi. Di fronte allo stigma, quando ci troviamo sotto  l‘influenza dello sguardo altrui, l’odio di sé ci sembra senza rimedio. Ecco come, con Pascal, si può trasformare questa impasse in una forza.

DESTINI DELLO STIGMA

Il portatore di stigma si aspetta molto dall’ambiente umano circostante. Essere riconosciuto, essere tenuto in considerazione e essere considerato come un simile sono la sua aspirazione. Poche parole, pochi gesti soprattutto gli daranno sollievo e gli permetteranno di sentirsi sostenuto. Poichè  lui è rinchiuso nella sua bolla, scoprirà con sorpresa che anche il gruppo familiare o quello dei suoi simili sono feriti. Si tratta di una ferita che interessa l’identità collettiva; gli scopi della famiglia sembrano ormai irrealizzabili.

Nel caso in cui lo stigma crei un handicap ad uno dei membri della famiglia, non è raro che i rimanenti solidarizzino in maniera spontanea. A volte, sotto la pressione dei genitori, gli altri figli (fratelli o sorelle del portatore di stigma) si privano della possibilità di chiedere amore, attenzione, consigli, aiuto, passatempi, ecc. Questo non mi sembra contribuire alla soluzione dalla crisi famigliare.

Per compiere il capovolgimento positivo dello stigma in una sorta di identità assunta, non conviene che i  soggetti della rete familiare si interroghino sul ruolo che hanno giocato e che devono ormai continuare a giocare? Ciascun genitore ha delle aspettative ideali per il proprio figlio; il figlio dovrà essere performante in un certo numero di ambiti. Questo potrebbe consolare il genitore dei suoi fallimenti, della sua castrazione. Per la madre, il figlio rappresenta il fallo ideale sognato e per il padre il continuatore che si iscriverà nei più nobili valori della sua linea di discendenza. Figlio sognato, idealizzato, che va a colmare una mancanza? L’ideale famigliare è condiviso da ciascuno dei membri della famiglia e ne riunisce le aspirazioni superiori. I narcisismi feriti, il narcisismo di ciascuno e il narcisismo degli antenati della famiglia, vorrebbero trovare consolazione nella generazione attuale. Se il bambino non adempie a queste condizioni, come superare tali sofferenze?

Il figlio idealizza a sua volta il legame primario con sua madre; attinge da lì la sua onnipotenza che evolverà in stima di se’.  E si ispira alle aspettative ideali genitoriali per configurare il suo essere soggetto. Più precisamente, il nucleo della sua identità si fonda sulla introiezione del fantasma genitoriale di figlio perfetto, che circola nel legame intersoggettivo figlio – padre – madre.

Quando viene scoperto un handicap, gli occhi che guardano il lattante riflettono l‘estraneità, il dolore, l’angoscia del futuro. E nel bambino si mette in moto un processo che conduce all’indebolimento di sé: egli non riuscirà a sopportare la delusione dei suoi genitori.

La varietà dei casi di stigma che provo a presentare non dovrebbe impedire di notare al loro interno una unità psicogenetica se si mette in rapporto l’odio di sé e il vissuto familiare, soprattutto la sofferenza narcisistica, che non è di scarso rilievo all’interno della famiglia: vi sono in gioco il suo onore, la sua fierezza, i suoi ideali.

Il caso che vi presento ora illustra questo processo.

LA FAMIGLIA  DI FRONTE ALLO STIGMA FISICO

La famiglia G. viene da me per affrontare le difficoltà del primogenito, di 3 anni, Pierrot che è diventato capriccioso, violento, disobbediente e sta compiendo agiti dopo la nascita del secondogenito, Jeannot, ad oggi di 8 mesi. Il primogenito ha una lussazione congenita dell’anca che ha avuto bisogno di parecchie operazioni e numerose cure. Ha potuto crescere  fisicamente: i genitori parlano con molta emozione delle cure intraprese, dell’angoscia che hanno vissuto, delle sofferenze fisiche del bambino nel momento delle cure. Egli mi pare si sviluppi bene, parla già abbastanza correttamente, sembra sveglio e disponibile al lavoro psicologico. Jeannot, presente al colloquio, sorride, saggio e sensibile. Non presenta problemi fisici. Inizialmente Pierrot sembra aver  ben accettato l’arrivo di suo fratello, ma in seguito è diventato violento con lui. Al colloquio si mostra piuttosto indifferente verso Jeannot e mal sopporta che gli si presti attenzione.

La madre conferma che questo atteggiamento è sempre più manifesto. Lei spiega che Pierrot è stato « valorizzato » e molto protetto durante i suoi primi due anni di vita. Molto inquieti, essi hanno sempre accettato i suoi capricci e lo hanno circondato della masima tenerezza, evitandogli la minima contrarietà. Malgrado i suoi progressi fisici recenti, dicono di non essere ancora completamente rassicurati sulla situazione.

Dopo una discussione tra la famiglia e me, propongo di instaurare un setting settimanale per Pierrot e delle sedute mensili per tutta la famiglia.

Ciò che il seguito della terapia dimostrerà è che Pierrot non aveva bisogno di una tale intensità. Si era instaurato un malinteso: Pierrot aveva capito di essere un « bambino adorabile », soprattutto per la madre: per questo veniva privilegiato con così tante cure, e con tutte le attenzioni dei genitori. In verità non soffriva per la sua differenza; erano i suoi genitori che ne risentivano. Lui si considerava come un bambino eccezionale e sentiva la kinesiterapia come delle carezze un po’ forti. La doccia fredda è arrivata con la nascita di Jeannot: c‘era un altro bambino in casa, questa venuta al mondo smantellava la sua teoria.

In tante famiglie, un figlio unico si trova smarrito dopo la nascita di un secondo bambino, ma in questo caso l’indebolimento dei genitori ha condotto ad alterare la loro relazione con Pierrot fin dall’inizio della sua vita; si sono dimenticati di trattarlo come un bambino uguale agli altri con la tenerezza e il rigore richiesti di volta in volta dalle situazioni. Inoltre, da ciò che mi hanno fatto capire, la ferita psichica era stata determinante nel progetto di « farne un secondo ». Si consideravano come dei genitori condannati cioè maledetti. Avevano una tara genetica che avrebbero trasmesso alla loro discendenza? Bisognava saperlo al più presto.

Ciò che vi ho esposto, l’ho capito successivamente e per tappe.

Il concepimento di Jeannot e la sua nascita hanno sconvolto totalmente le cose nella  famiglia.  Pierrot si vendicava a modo suo diventando insopportabile e allo stesso tempo detestabile. Malgrado un netto miglioramento fin dalle prime sedute, alcuni sentimenti di odio e di delusione  sono continuati tra i membri della famiglia per un certo periodo. L’analisi degli atteggiamenti rigidi di ciascun membro della famiglia, che stimolavano l’agitazione e l’opposizione di Pierrot, ha potuto favorire la comparsa di un suo comportamento più collaborativo. In una seduta familiare, ho sottolineato che tutto ciò provocava una sofferenza insopportabile nella madre, disorientata nel comprendere il motivo per il quale il bambino era così cambiato da un anno a quella parte. Ho anche fatto appello alla responsabilità di ciascuna persona della famiglia, più concentrata sulla propria sofferenza personale che sullo stato emozionale dell’altro. Per esempio, non sopportando più la situazione, i genitori si mostravano troppo reattivi senza cercare di ascoltare ciò che Pierrot voleva dire loro.

Ho aggiunto che quest’ultimo non sembrava voler « riconoscere lo sconforto dei genitori » e che Jeannot (ancora  lattante), con la sua aria estranea a tutta la situazione, sembrava ignorare che la sua famiglia fosse lacerata. Malgrado la loro tenera età, i bambini hanno dovuto sentire il mio messaggio: di conseguenza in Pierrot si è manifestato un movimento di avvicinamento. Ho creduto importante includere Jeannot nella mia interpretazione affinchè questo fosse sentito dagli altri, visto che avevo già constatato che i genitori lo iperproteggevano.

Con Pierrot in terapia individuale, ho lavorato sodo tutte le settimane. Iperattivo, disegnava e giocava poco, ma giocando con me si è maggiormente stabilizzato.

Qualche scena giocata da noi due:

–     eravamo pompieri chiamati per spegnere un incendio in un appartamento situato ai piani superiori; arrivavamo e salvavamo, in base alla seduta, una vecchia signora, un bebé, un bambino, un cane, ecc. Il gioco si è ripetuto con delle varianti: Pierrot voleva spesso essere il « salvatore »; raddoppiava la sua audacia; riceveva gli applausi dei vicini testimoni della scena. Sembrava adorare salire sulla « scala » e mostrarsi fisicamente abile. (A questo punto non aveva più difficoltà a camminare o a correre).

–     Interpretava il ruolo di una mamma che non aveva più latte per il biberon. Io interpretavo o un vicino, o il papà al quale lui domandava di andare a prendere il latte in farmacia. Questa era chiusa per turno o perchè era  « troppo tardi ».  Mi chiedeva di girare per tutto il quartiere fino a trovare il latte. Il gioco in seguito è variato: il latte era introvabile e il bebé restava senza mangiare. Pierrot – madre di fronte a questo restava insensibile.

–     Mi ha chiesto di giocare a Cappuccetto Rosso e al lupo e volta per volta mi ha chiesto di interpretare la vittima, il debole o colui che è terrorizzato tenendosi per se’ il « bel ruolo » . Per esempio, sono stato la nonna divorata dal lupo; una Cappuccetto Rosso ingenua e  « idiota » che non si ricordava di « ciò che succedeva nella favola » e che, attardandosi nel bosco a mangiar fragole, « non sapeva evitare il pericolo ».

–     Pierrot si aspettava che io mi arrabbiassi, mi infuriassi, lo punissi, gli impedissi di toccare un oggetto;  sembrava stupito che la mia unica reazione fosse di interpretare la sua aggressività. Questa comprensione lo ha certamente « toccato ».

–     Al momento delle due sedute successive, Pierrot vedeva dei fantasmi pericolosi invadere la sala della terapia. Li combatteva con delle armi e vinceva sempre. Non supportava i miei interventi, soprattutto quando sottolineavo il suo desiderio di mostrarsi superiore o la sua voglia di umiliare me per nascondere la sua umiliazione. Aveva un aria di trionfo quando nel gioco mi invitava a seguirlo « come un cagnolino al guinzaglio », mi ordinava e voleva sminuirmi. Ho sempre accettato le sue proposte riservandomi la possibilità di intervenire nel gioco, spesso con delle brevi osservazioni. Pierrot ha modificato il suo atteggiamento di fronte a me. Quando ormai manifestava delle resistenze, preferiva tacere o giocare a fare la siesta come se volesse dirmi: « E adesso, cosa mi puoi dire a proposito di questo gioco? ».  Dai suoi 4 anni sembrava escogitare il miglior modo per dominarmi. Non escludo tuttavia che le sue « produzioni » fossero anche meno calcolate, ovvero inconscie. Ma sembrava ottenere sempre maggior piacere da questo gioco.

–     Quando era tranquillo noi diventavamo una famiglia « gioiosa »  in viaggio su una macchina piena di « valige » (i giochi in scatola) ma spesso dimenticava di portare Jeannot o i suoi pelouche che « restavano a casa ».

Nelle sedute familiari, il gioco era molto diverso, Pierrot si esasperava se non poteva essere al centro della discussione e, arrabbiato, poteva rovesciare la scatola dei pennarelli. Una volta  ha interpretato un acrobata che si lanciava dal trapezio cadendo sul divanetto. Il modo di buttarsi sul divanetto aveva qualcosa di erotico… La madre restò impressionata di vederlo agire in questo modo ed ebbe paura che lui si ferisse, quando oggettivamente non sussisteva alcun pericolo. Mi sono ricordato che nella seduta precedente Pierrot, uscendo, mi aveva detto « Arrivederci papà!  » e che la madre si era affrettata a spiegargli che io non ero suo padre.

CONCLUSIONI

A prima vista Pierrot detestava suo fratello ma non se stesso. I suoi genitori rifiutavano il suo difetto, vivevano inconsciamente la vergogna di portare una eredità difettosa e di averla trasmessa. Era il loro detestabile stigma. I genitori si odiavano. Questa avversione ricadeva sull’insieme della famiglia. E in Pierrot, lo stigma della sua malformazione ha complicato la sua visione delle cose: la malformazione fisica è diventata stigma a partire dal momento in cui la famiglia si è preoccupata per lui. Se così non fosse stato, Pierrot avrebbe vissuto lo stigma in un altro modo. Ad ogni modo questo ha generato in lui un malinteso che ha contribuito a deformare l’idea di se’. Da bambino che sembrava imperfetto per gli altri, Pierrot è diventato ai suoi occhi degno di una alta venerazione. Poteva permettersi di tutto; non ha tardato a dimostrare ciò mettendosi a dettar legge. Quando il fratello è nato, potrebbe egli aver pensato di essere stato intrappolato, di non essere più un bambino adorabile ma ormai disprezzato?

Per capire l’odio di sé, il gioco di specchi e di riflessi me-altri ci mettono su una strada promettente. Procederemo domandandoci perchè diamo tanto credito a ciò che gli altri pensano di noi.

Nascere con un difetto o fabbricarselo da soli è strettamente legato all’odio di sé e le cose resteranno in questo modo fino a che si ignorerà il compromesso handicappante stabilito con lo sguardo altrui. Eludere questo sguardo è un compito da affrontare e portare a termine con l’aiuto degli psicoanalisti della famiglia.

Prima di realizzare un capovolgimento positivo dello stigma, è importante che il soggetto contribuisca a liberare i suoi genitori da questi pregiudizi che  lo stigmatizzano.

Bibliografia

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Laplanche J. et Pontalis J-B (1967) Vocabulaire de la psychanalyse, Paris, PUF.

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Wieviorka M. (2001) La différence, Paris, Balland.

Résumé

« Le stigmate et la haine de soi. » Ce travail aborde le problème du stigmate : il évoque de nombreux problèmes liés au social et au psychique. Un stigmate est un défaut mais il devient stigmatisant lorsqu’on développe de la haine à l’encontre de soi, que l’on se déprécie. Pour l’auteur, l’environnement familial joue une fonction non négligeable dans cette évolution. Il étudie différentes dérives et notamment les conséquences du regard d’autrui. Si le groupe social et le groupe familial jouent un rôle dans cette évolution, c’est avec le groupe et en s’étayant sur lui que la situation de la stigmatisation se renversera et que le stigmate pourra devenir une force. Un cas clinique permet d’illustrer les effets de la haine de soi. Les contributions de la philosophie et de la sociologie élargissent ce débat.

Mots clés Stigmate. Stigmatisation. Préjugé. Haine de soi. Regard d’autrui. Soi. Moi

Summary

“Stigma and self-hate.” The author discusses the problem of stigmatization, evoking many problems related to the social and the psychic orders. A stigma is a defect, but when it is stigmatized, self-hate develops and the subject depreciates him or herself. The author considers that family environment has an important role in this evolution. He studies diverse aspects, principally the consequences of the gaze of others. Since family and social groups play an important part in this development, it is in groups and with their support that the situation of stigmatization is reverted and stigma may become strength. A clinical case illustrates effects of self-hate. Contributions from philosophy and sociology expand this debate.

Key words  Stigma. Stigmatization. Prejudice. Self-hate. The gaze of others. Self. Ego.

Resumen

« El estigma y el odio de sí mismo. » Este trabajo aborda el problema de la estigmatización: evoca numerosos problemas relacionados con lo social y lo psíquico. Un estigma es un defecto, pero cuando se lo estigmatiza, se desarrolla odio contra sí mismo, el sujeto se deprecia. Para el autor, el entorno familiar juega un papel importante en esta evolución. Estudia diversas derivas, principalmente las consecuencias de la mirada de los demás. Si los grupos familiar y social desempeñan un papel importante en tal evolución, es con los grupos y apoyándose sobre ellos que la situación de la estigmatización se revertirá y que el estigma podrá transformarse en una fuerza. Un caso clínico ilustra los efectos del odio de sí. Las aportaciones de la filosofía y la sociología amplían este debate.

Palabras clave. Estigma. Estigmatización. Prejuicio. Odio de sí. La mirada de los otros. Sí mismo. El yo.

Dr Alberto Eiguer

154 rue d’Alésia

75014 Paris

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[1] Traduzione di Luciana Bianchera e Giorgio Cavicchioli.